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21/11/2011 alle ore 23.18.31
'Soluzione Monti”
Ho trovato questo dotto articolo di Antonio Socci, che a parte qualche sbandata estremista, è un grande giornalista e, a modo suo, filosofo e ve lo voglio riproporre perché per me è stata fonte di meditazione sulla situazione di questo nostro disgraziatissimo paese. L'interrogativo che Socci pone, nel suo lunghissimo articolo, è se il 'male' nel nostro paese non siano proprio i suoi abitanti, cioè noi. Secondo me c'è andato molto vicino....
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'Soluzione Monti”
Salvare l’Italia con una grande pacificazione (leggete Petrarca per capire la situazione…)
“I nostri Italiani continuamente distruggono, terre, città, provincie e l’intera regione con le loro inimicizie”, trascurando “per eccessivo amore a se stessi (…) il bene comune”.

Sono parole scritte nel 1304 dal domenicano Remigio de’ Girolami nel suo trattato “De bono communi” (cioè sul bene comune).
E fanno riflettere sulla malattia mortale che per secoli ha afflitto il nostro Paese: la divisione in fazioni, in principati, in partiti. L’interesse di parte (con l’odio di parte) che prevale sull’interesse comune.

E’ una riflessione doverosa oggi che l’Italia si trova in una drammatica emergenza nazionale. Oggi che a tutti i partiti (e a tutti gli italiani) è richiesto di privilegiare la “messa in sicurezza” del Paese sull’interesse di fazione o personale.

Dicevo che secoli di storia nazionale mostrano come tutti i nostri mali siano derivati dal fatto che è prevalso (quasi) sempre l’interesse di fazione. Se ne trova traccia indelebile perfino nei nostri classici, nei padri della nostra cultura nazionale.

Dante, che pure era un uomo di partito e che era stato ingiustamente condannato ed esiliato, giunse a rifiutare l’appartenenza a qualunque fazione perché constatò che la tragedia del Paese stava proprio nell’essere dilaniato da miopi guerre fratricide e feroci lotte di fazioni: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!” (Purg. VI, 76-78).

Pochi anni dopo l’altro padre della letteratura italiana, Francesco Petrarca, nel suo “Canzoniere”, alza il suo triste lamento di fronte allo stesso avvilente panorama.

Le guerre fra i diversi stati italici (e all’interno degli stessi) erano così tante e continue che da sempre i critici letterari discutono su quale sia quella che ha dato spunto al Petrarca.

Sarà la guerra di Parma del 1344 o quella fra Genova e Venezia o qualcuna delle tante altre?

In realtà la lirica è volutamente alta e generale proprio perché questo grande poeta italiano vuole condannarle tutte e vuole richiamare tutti i prìncipi e i capi di fazione alla loro grave responsabilità: l’aver fatto della patria un campo di battaglia, l’aver ridotto in miseria la vita di un popolo e il far subire all’amata nostra terra tutte le scorribande degli eserciti stranieri.

E’ in nome del grande passato dell’Italia e della comune fede cristiana che Petrarca innalza il suo grido, consapevole della sua responsabilità di intellettuale, ma anche certo dell’inutilità del suo appello.

Infatti questa celebre canzone si aprirà con dei versi sconsolati: “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì spesse veggio…”.

Prosegue così: “piacemi almen che ‘ miei sospir’ sian quali/ spera ‘l Tevero et l’Arno,/ e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggo”. Intende dire: non si può più fingere di ignorare questo suicidio della patria.

Il Petrarca alza la sua preghiera a Dio che per “pietà”, essendosi fatto uomo ed essendo venuto sulla terra, “Ti volga al Tuo dilecto almo paese”.

Con quel “Tuo dilecto paese” il poeta ricorda il grande disegno che la Provvidenza ha sull’Italia, avendo scelto Roma come faro e centro della cristianità.

Sempre parlando al Signore, il poeta denuncia i motivi futili o gli interessi meschini che scatenano le guerre che dilaniano l’Italia (“di che lievi cagion’ che crudel guerra;/ e i cor’ che ‘ndura e serra/ Marte superbo e fero”).

E poi chiede a Dio – anche attraverso la sua poesia – che sia lui stesso, Verità eterna, ad aprire e intenerire i cuori e a sciogliere i nodi che provocano tante lotte fratricide.

Quindi, rivolto a prìncipi e capi partito del suo tempo, parla delle “belle contrade/ di che nulla pietà par che vi stringa”. E domanda: “che fan qui tante pellegrine spade?”, cioè: perché siamo ormai alla mercé delle armate straniere?

“Perché ‘l verde terreno/ del barbarico sangue si depinga?”

Li avete chiamati qui perché sperate che i barbari spargano il loro sangue per voi, per far prevalere la vostra fazione?

Il Petrarca fulmina i prìncipi, i capi partito e le fazioni del suo tempo con due versi fiammeggianti. “Vano error vi lusinga:/ poco vedete, et parvi veder molto”. Poi aggiunge: “vostre voglie divise/ guastan del mondo la più bella parte”.

Giustifica questo suo grido (“io parlo per ver dire,/ non per odio d’altrui, né per disprezzo”) e lancia il suo appello più accorato ricordando che la patria è la terra in cui sono sepolti i padri di tutti noi, è il nostro passato comune e il nostro futuro comune:

“questo la mente

talor vi mova, et con pietà guardate

le lagrime del popol doloroso,

che sol da voi riposo

dopo Dio spera; et pur che voi mostriate

segno alcun di pietate,

vertù contra furore

prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:

ché l’antiquo valore

ne l’italici cor’ non è anchor morto”.

Le parole di Dante e del Petrarca – in cui si è sempre ritrovata la voce della patria italiana – sono rimaste inascoltate per secoli ed è per questo che quello italiano è stato l’ultimo grande popolo europeo a darsi uno stato unitario.

E pure quando siamo riusciti a metterlo in piedi, nella seconda metà dell’Ottocento, di nuovo lo abbiamo fatto l’un contro l’altro armato, in una sorta di guerra civile nazionale.

La quale fu all’origine di tanti guasti, che soffriamo tuttora, e fu all’origine di una serie di tragedie (la spaccatura Nord-Sud, l’esclusione del popolo dallo Stato, dominato da una casta, la prima guerra mondiale, il fascismo e la seconda guerra mondiale) che – a loro volta – hanno devastato l’Italia e provocato immani sofferenze.

E quando poi, nel secondo dopoguerra, faticosamente l’Italia si è rimessa in piedi e si è data finalmente un ordinamento libero e democratico, anche in quel frangente il Paese è stato dilaniato da lotte feroci, da odi ideologici terribili, che si sono trascinati per anni e anni. Con perduranti violenze.

Infine quando le antiche ideologie sono crollate nel mondo, l’Italia è stata dilaniata da un conflitto metapolitico permanente.

Da noi la normale, sacrosanta, fisiologica dialettica fra partiti – che dovrebbe essere un civile confronto di idee – ha sempre sfiorato lo scontro apocalittico, la criminalizzazione, l’odio, l’anatema reciproco, ha fatto evocare addirittura differenze antropologiche, ha spaccato il Paese in fazioni contrapposte da un’ostilità viscerale, da un disprezzo ontologico.

Dunque il fatto che oggi, di fronte a un’emergenza la quale rischia di travolgere il Paese, di rovinarci tutti, di gettare nella disperazione tante famiglie, di distruggere lo Stato italiano a 150 anni dalla sua fondazione, i diversi partiti, che fino a ieri si sono combattuti, decidano di siglare un armistizio e – tutti insieme – di salvare l’Italia dal tracollo, è una grande notizia.

Potrebbe essere addirittura la data di nascita di un’Italia diversa e migliore, finalmente pacificata: quella che per secoli si è riconosciuta nei suoi poeti. Se tutto questo accadrà….

Antonio Socci

Link: http://www.0583.eu/cristofani/seconda.asp?a=2011&m=11&id_post=123
 
 
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